sabato 31 luglio 2010

"Mi dispiace è risultato positivo"




Il ragazzo  mi punse il dito mignolo con un ago, prese una goccia di sangue la mise in un provino mise il reagente , aspettammo alcuni minuti e mi disse “mi dispiace è positivo”.. Uscii da li con il risultato del laboratorio, per un momento niente aveva senso ero confuso, camminai in una direzione sbagliata, non so quanto tempo passo, ero quasi sordo, finalmente tutto tornò alla normalità, nel traggito dell'autobus dal laboratorio, recuperai il senso della realtà e potei pensare che dopo tutto quello che avevo fatto l'estate passata era logico che avessi avuto quel risultato.
Senza esitare cercai di pensare che attualmente, in unpaese europeo, questa infermità è paragonabile al diabete o a l’epilessia che, se sotto trattamento medico non ti uccide. Anche se le paranoie arrivarono dopo facendomi diventare un poco ipocondriaco, per esempio, ebbi una piaga su una coscia e andai di corsa dal medico pensando ad un cancro della pelle e alla fine risultò essere il morso di un ragno.

Oltre a questo c’è la disapprovazione sociale, cosi visto che non ho avuto nessun episodio grave di salute e che tuttavia non prendo farmaci solo alcuni dei miei amici lo sanno. La mia famiglia vive in un altro continente e ho pensato che non ha senso farli soffrire inutilmente, cosi non lo sanno. Ho avuto qualche delusione con possibili progetti di coppia, quando raccontavo che sono sieropositivo tutti sono stati molto rispettosi e mi ringraziavano per essere stato sempre sinceroe mi salutavano con un “ci vediamo” però non rispondevano alle mie chiamate o ai miei messaggi di posta elettronica.
Ho avuto la fortuna di poter partecipare ad un gruppo di aiuto di sieropositivi che lavorano da molti anni perché noi si possa avere una buona qualità della vita e questo mi è servito per non sentirmi isolato, e vedere altre persone che hanno passato momenti molto difficile e hanno avuto la forza per poter andare avanti giorno dopo giorno mi fa pensare che anche io posso farcela.


Il mio compagno invisibile..


Era l’anno 1985, in quel periodo la mia vita trascorreva tra Ibiza e Zurigo, ero felice e appena innamorata.
Cominciai a sentire di diverse persone attorno a me che, si ammalavano o morivano.
Decisi di farmi la prova dell’HIV. Visto che già immaginavo  – sempre cerco di preparami un piano B -  che il test sarebbe risultato positivo, come in effetti risultò,  non ricordo particolarmente traumatico il momento in cui mi dettero il risultato.
Ebbi la grande fortuna, come dissi prima, che avevo il mio compagno al mio lato e questa fu la mia forza.
Potei comunicargli la mia sieropositività senza problema e mi aiutò anche ad accettarlo con normalità. Ebbi anche la grande fortuna di non patire nessuna infermità opportunistica e per ciò non mi cambio la vita essere HIV+.
Può sembrare idilliaco  e irreale, pero l’unica cosa che mi ha tolto dell’essere sieropositiva, è stato forse la possibilità d’essere madre, non esistevano all’epoca i medicinali che esistono ora, e la possibilità che il bambino potesse essere positivo era alta, troppo alta per me.
Con le amicizie e le seguenti relazioni ugualmente non fu particolarmente difficile comunicare la mia situazione, parlai con tutti in maniera totalmente normale, era un argomento in più. Alcune volte con le relazioni la cosa fu un poco sgradevole e con qualche dubbio in più sul comunicare la mia positività, ma ho avuto la fortuna che la genta ha conosciuto in primo luogo me e solo poi il virus, questo compagno indesiderato.

Inoltre, non ho avuto come altre persone HIV+, la necessità imperante di comunicare la mia situazione. Perché? Il mio problema non doveva essere un handicap nel momento di stabilire una relazione, e se lo avessi fatto, di sicuro se ne sarebbero scappati correndo.

Non ho posto nessuno in pericolo e per questo posso dormire tranquilla, pero nemmeno mi sento responsabile della sicurezza degli altri. Avendo le informazioni che abbiamo, ognuno deve essere responsabile della propria sicurezza e responsabile delle sua azioni.
Attualmente con quasi 52 anni, ho accettato e imparato a vivere con "lui", il mio compagno invisibile e so che avuto fortuna anche se non è stato un cammino fatto di rose, dopo tanti anni di terapia, ho tutti gli effetti nocivi che questa può dare, ma continuo viva e quella che è la mia lotta ora è che non mi abbandoni il mio carattere ottimista.


FERRAN PUJOL



Fu complicato e per niente normale ciò che mi successe. Fu molto traumatico, io stavo con Michel, il mio compagno, con il quale vivo già da 22 anni. Già eravamo coscienti che noi eravamo vulnerabili all'HIV perchè stavamo vedendo persone intorno a noi che ne rimanevano contagiate e si ammalavano. Alcuni di loro lo nascondevano. Il pregiudizio era molto grande. Era chiaro che alcuni gruppi erano più vulnerabili di altri.
Decidemmo farci la prova appena fosse disponibile. Andai al Centro di Infermità da Trasmissione Sessuale della  Generalitat y chiesi la prova degli anticorpi. Pero non ritornai per i risultati, anche se mi preoccupavo perchè sapevo che colpiva gli omosessuali in maniera speciale. Io ero una persona cosciente, non sono mai stato “frivolo”. Non so se fu un meccanismo di difesa quello di non ritornare a ritirare i risultati delle analisi.
Quando tornai da un viaggio dal Marocco ebbi un attacco terribile di diarrea, che attribui alle condizioni igieniche, del cibo, della temperatura altissima o al fatto che non sempre ci fosse acqua corrente. Avevo un herpes ad una natica che non associavo all'HIV o a niente di assimilabile. Tornai un altra volta al Centro dimenticandomi che avevo il risultato degli anticorpi, per mia sfortuna non c'era il mio medico. Il medico che mi segui credeva fossi al corrente dei risultati delle analisi. Però nessuna mi aveva avvisato. Quando gli dissi “mi è uscito questo” mi rispose: “però questo è normale, con la vostra condizione di sieropositività”. Ascoltare questo mi traumatizò, mi esplose nella testa.

Io non avevo avuto nessuna preparazione prima. L’impatto è sempre un impatto, però non pensai assolutamente a niente. Prima senti come se qualcosa mi si rompesse dentro e di seguito un enorme bisogno di mettermi a piangere. Cercai di contenermi fino a quando il medico mi prese la mano e mi disse “piangi tutto quello che vuoi”. Già mi vedevo morto, mortissimo. Così fu come mi venne dato il risultato. Questa mancanza di sensibilità fu il risultato di una terribile confusione.
Pensavo che mi sarei isolato, che avrei mangiato bene che avrei pulito tutto con candeggina. Non conoscevo realmente la malattia. 
 Pensavo che sarebbero state le aggressioni dall’esterno a condizionare la vita di una persona. Ero molto giovane e pensavo che da quel momento sarei stato come un bambino in una incubatrice.

Avevo bisogno di vedere Michael, il mio compagno, per dirglielo, per me e per lui. 
Ero nel metro e piangevo tra gli sguardi della gente, provavo invidia, loro non sarebbero morti io si. Non riuscii a rintracciarlo fino a sera, e per questo cercai mio fratello con il quale compartii il mio pianto.
Alla sera arrivo Michael, gli spiegai che cosa avevo, reagì in maniera violenta, non contro di me, ma contro la malattia. Era comprensibile.

Per me la visibilità è qualcosa di molto importante per normalizzare questa situazione. Sono convinto che con questa malattia vivremo molti anni e per questo penso che si debba farlo nella maniera più normale possibile.
Se la gente potesse vedere tutti i sieropositivi, la convivenza sarebbe molto più facile. Capisco il panico iniziale di tutto il mondo quando non si ha ben chiaro quello di cui si stà parlando. La visibilità più importante è quella che una persona può dare al suo intorno più immediato. Per me essere visibile era assumermi la mia condizione di sieropositivo, non come una bandiera ne come uno stendardo, anche se a volte l’ho fatto, è incorporarlo nella mia vita quotidiana con la massima normalità.
Feci una scelta nel 1994, nel momento in cui raccontai a mio padre quello che mi era successo, mi costo molto, tardai molti anni ad aprirmi – non per la paura del rifiuto – ma perché temevo di rovinargli la vita. Da quel momento cominciarono a saperlo le persone che più mi importavano e non lo nascosi più a nessuno. In alcuni momenti ho utilizzato questa infermità quando potevo averne alcun vantaggio.
Tra le mie esperienze di visibilità, feci un programma dalla TV3, mi spogliai come persona davanti alla telecamera, mi garantirono che non lo avrebbero trasmesso se non fossi stato d’accordo con tutto il contenuto. Lo feci, piacque molto al pubblico in generale, fu emesso un martedì o un mercoledì nell’ora di punta, ma non fu questa la mia vera esperienza se non un'altra. 
Avevamo una casa in affitto in un paese di cacciatori, un popolo dove tutto il mondo conosceva Michael e me. Quando arrivo il venerdì, il momento di andare al paese, cominciai a essere inquieto, pensavo a quale sarebbe stato la loro reazione.. Già avrebbe pesato abbastanza – pensavo – che eravamo omosessuali, e in più scoprire che eravamo due persone con Aids.
Quel giorno chiesi a Michael di cercare d’evitare la piazza, il giorno seguente mi disse che avrei dovuto affrontarli prima o poi, e se era necessario andarcene lo avremmo fatto. Lo avremmo affrontato di petto come altre cose prima.Andai alla piazza ed entrai nel bar.
Può sembrare sorprendente, però la cosa sicura è che ricevemmo  la loro ammirazione, gli abbracci e la solidarietà di praticamente tutto il paese, immagino che ad alcune persone non gli abbia fatto molto piacere però si limitarono a non farmelo sapere. Realmente fu un momento molto forte.
Anche se non sono per niente mistico, a volte dico a Michael che siamo previlegiati: la nostra storia aveva tutti gli ingredienti per finire in un'altra maniera.